(Federica Cannas) – In Sudamerica, il 2025 segna una frattura netta tra due visioni del lavoro e del futuro sociale del continente. Da una parte, la Colombia di Gustavo Petro, che ha scelto di ricostruire dignità e stabilità attorno al lavoro come diritto. Dall’altra, l’Argentina di Javier Milei, che si muove in direzione opposta, inseguendo la promessa liberista di una flessibilità capace, almeno nelle intenzioni, di ridurre l’informalità e stimolare la crescita.
Due alfabeti del lavoro che non si incontrano. Quello della protezione e quello della deregolazione.
Il 12 agosto 2025, il governo Milei ha presentato alla Camera dei Deputati il progetto di legge 4340-D-2025, denominato “Reforma integral del régimen laboral para la formalización y el empleo”, che modifica in profondità le leggi precedenti sul tema. È un testo ambizioso, destinato a cambiare radicalmente la struttura del diritto del lavoro argentino, già parzialmente anticipato dal Decreto 847/2024 che aveva regolamentato alcuni aspetti della precedente Ley Bases.
Le novità principali riguardano l’estensione della giornata lavorativa fino a dodici ore, la possibilità per le imprese di pagare parte del salario con buoni o “ticket canasta”, la facoltà di dilazionare le indennità di licenziamento in più rate, e una revisione complessiva della contrattazione collettiva. La riforma introduce anche incentivi fiscali per chi assume formalmente, con detrazioni che vanno dal 25 al 100 per cento a seconda della dimensione dell’impresa, e rafforza la libertà individuale di adesione sindacale, riducendo il peso dei contributi obbligatori.
In sintesi, Milei propone di semplificare, flessibilizzare e decentrate.
L’obiettivo dichiarato è ridurre l’enorme informalità del mercato del lavoro argentino, abbattendo oneri e rigidità. L’effetto politico, però, è più complesso. La riforma segna una rottura culturale con la tradizione lavorista del Paese, che affonda le sue radici nel peronismo e nella stagione progressista latinoamericana.
Durante un incontro con venti governatori, Milei ha parlato di “consenso assoluto” attorno alla riforma, definendo “una benedizione” la sconfitta elettorale di settembre, perché gli avrebbe permesso di riorganizzare la strategia di governo e affrontare senza esitazioni i “nodi strutturali” del Paese. È la retorica di una rivoluzione liberista che si presenta come inevitabile, e che cerca di trasformare la crisi in occasione di rivalsa.
Il linguaggio della riforma è quello della competitività e della velocità. Le imprese dovranno poter licenziare e riassumere con più agilità; la contrattazione dovrà spostarsi dal livello settoriale a quello aziendale; la stabilità, se necessaria, potrà essere comprata, rateizzata o negoziata. Tutto questo in nome della “modernità” di un mercato che deve correre.
Sul piano simbolico, è un passo netto verso l’abbandono del modello latinoamericano costruito negli ultimi vent’anni, quello che aveva cercato di tenere insieme sviluppo economico e diritti sociali.
L’Argentina di Milei sceglie invece la via opposta. Meno tutele, più incentivi, più libertà per il capitale, nella convinzione che la prosperità di pochi genererà, per caduta, benefici per molti.
A questa visione si contrappone il progetto colombiano, approvato nel giugno 2025 con la Ley 2466, che rappresenta l’atto politico più coerente del governo Petro.
Qui il lavoro è concepito non come variabile economica, ma come fondamento della cittadinanza.
La riforma colombiana limita l’uso dei contratti a termine, rafforza le tutele nei rapporti di lavoro, estende le maggiorazioni per festivi e notturni, riconosce i diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali e introduce garanzie specifiche contro le molestie sul luogo di lavoro. È una legge che parla la lingua della dignità e che punta alla formalizzazione come obiettivo di giustizia sociale, non di convenienza fiscale.
Se in Argentina la parola chiave è “flessibilità”, in Colombia è “decenza”.
Due concetti che raccontano molto di più della politica del lavoro. Raccontano due idee di società.
Nel Paese guidato da Milei, il lavoratore è trattato come agente economico razionale, responsabile di se stesso, libero di accettare o rifiutare condizioni di mercato; nel disegno di Petro, è parte di una comunità di diritti e doveri, in cui lo Stato interviene per correggere squilibri strutturali.
Il contrasto non potrebbe essere più netto. Mentre Bogotá innalza la soglia dei diritti, Buenos Aires la abbassa in nome della produttività.
Nel primo caso il lavoro è un fatto politico, nel secondo, un fatto tecnico.
Ma la tecnica, come sempre, nasconde una scelta di campo.
E questa scelta, oggi, segna il nuovo confine ideologico dell’America Latina.
La Colombia scommette su un’idea di progresso inclusivo, l’Argentina su una libertà d’impresa che diventa libertà di licenziare, di dilazionare, di contrattare in solitudine. Due traiettorie destinate a misurarsi nei prossimi anni, quando i risultati economici e sociali di ciascun modello potranno essere confrontati.
Nel frattempo, le parole di Milei — “consenso assoluto per la riforma del lavoro” — suonano come una dichiarazione di guerra culturale, non solo contro il sindacato, ma contro un’intera tradizione sociale latinoamericana che aveva collocato il lavoro al centro della vita pubblica.
È lì che oggi si gioca la partita. Tra chi crede che la libertà nasca dal mercato e chi crede che nasca dalla dignità.
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