In un angolo remoto del Cile, in una casa di legno e terra battuta, nasce il 28 settembre del 1932 a La Quiriquina, a dodici chilometri da Chillán Viejo, Víctor Jara, un bambino destinato a diventare la voce di un intero popolo.

La sua storia si intreccia con quella del suo paese ed è una storia di lotta, di resistenza, di creatività e, infine, di martirio.

Victor è il più piccolo di sei fratelli ed è figlio di contadini mezzadri che vivevano ai margini della società cilena.

“I miei genitori erano mezzadri. Vivevamo ai margini di un villaggio che si chiama La Quiriquina. Sei fratelli in una casa di legno e terra battuta. Quando sulla tavola c’era un pezzo di carne, era festa. Eravamo poveri, poverissimi.”

La sua infanzia trascorse tra i campi di Lonquén, seguendo il padre nel duro lavoro della terra. È un padre analfabeta. Non vuole che i figli vadano a scuola, “servono braccia per la terra” diceva. Ma sua moglie, Amanda, aveva altri progetti. Lei sapeva leggere un po’, e con tenacia insegna loro almeno le lettere. Non voleva che restassero “ciechi al mondo”.

Amanda è anche una “cantora”, come si dice in Cile. Cantava per le feste, per i funerali. E il piccolo Víctor la segue sempre, ed ogni volta resta incantato dai suoni della sua chitarra, dalle storie che racconta attraverso le canzoni meravigliose. Quei suoni lo “scavano dentro, battezzandolo nell’anima”.

La sua infanzia è difficile, segnata dalla povertà, dalle tensioni familiari.

Il padre comincia a bere, sparisce per giorni, lasciano tutto il peso del lavoro sulle spalle di Amanda. E la madre non si lamenta mai. In una delle sue poesie, Víctor ricorda:

“La luna è sempre bellissima
Ricordo il volto di mio padre
come un buco nel muro,
lenzuola sporche di fango,
terra battuta sotto i piedi,
mia madre, giorno e notte, a sgobbare…”

La sera Amanda prime di andare a dormire prepara le tortillas con la farina e le nasconde sotto la terra per tenerle fresche ed è una gioia la mattina allontanare il grido della fame con quel cibo atteso e sicuro. Qualche volta i figli vengono spediti su nei monti per cercare erbe selvatiche che poi sistema in mazzetti da andare a vendere assieme alle poche uova che riesce a risparmiare, in città.

E se rimaneva il latte fa le formaggelle. Con quei soldi sbarca il lunario. E per Victor questa donna straordinaria assomiglia una madonna, la ama e la ammira quanto non amava ed odiava quell’ubriacone di suo padre.

A scuola comincia subito a farsi valere e per due anni è letto el mejor compagnero dell’anno. Ma la cosa che più lo diverte è recitare nei saggi di fine d’anno dove eccelle.

Quella vita semplice e dolce termina in un attimo. mentre preparava la lisciva per il bucato la sorella più grande di 13 anni inciampa e per errore cadde sulla pentola dell’acqua bollente che le cade addosso ustionandola

Le donne corrono a chiamare Amanda che con un pancione da ultimi mesi (in pancia dormiva e scalciava il quinto figlio Roberto) corre come una disperata dalla figlia svenuta a terra,

Non ci voleva molto a capire che le ustioni erano gravissime così chiedono a un anziano di poter trasportare con un carro la ragazza a Santiago per curarla.

A Santiago Maria restò nell’ospedale per un anno.

Lei è la figlia più grande, il suo aiuto. Senza si sente disarmata. Ma non demorde. Si trasferisce nel capoluogo per starle accanto.

Erano finiti i giorni dolci e leggeri. Era finito il tempo del bambino che stava attaccato alla gonna della mamma, con un gesto scostante tutto era stato cambiato in un attimo.

A Santiago la vita non è come quella di lankan. Per le strade si aggirano personaggi loschi e brutti ceffi. Bande di ragazzetti si sfidano per le strade e un profondo odore di sporco, sigarette povere e alcol circonda le strade.

La madre trova un lavoro come cuoca alla stazione centrale, dove la notte sostano camionisti che si preparano a percorrere le lunghissime strade del Cile o tristi uomini al ritorno dai bordelli. Adesso il suo tempo è contato esce alle 2 del mattino e torna alle sei di sera.

Ma i suoi ragazzi a scuola sono sempre puliti, i migliori della classe, mai un rimprovero, mai una macchia. Un esempio.

Non si sono fatti acchiappare dal quartiere violento.

La chitarra della mamma però sta poggiata e silenziosa in una stanza sempre vuota

Victor comincia a strimpellarla, attratto dalla musica suonata da un certo Omar che suonava in un bar clandestino.

Un giorno si ritrova dentro

Passava le sue notti con l’orecchio appoggiato alla porta chiusa del locale, finché una sera Omar lo scopre e vedendolo lo invita ad entrare.

Una sera quando la mamma torna sente la chitarra suonare ed una debole voce che la richiama al suo passato. È un attimo di sorpresa. Si avvicina alla stanza e scopre che Victor, il suo Victor, sta suonando e cantando i suoi canti. L’emozione è fortissima e si mette a piangere.

Inizia quindi a cucinare per i vicini, poi per qualche passante, poi per operai che cercano un piatto caldo a buon prezzo.

Si fa conoscere per la bontà del suo cibo e la sua disponibilità.

Pian piano, quel luogo umile dove vive, forse una baracca con una stanza in più, diventa una sorta di locanda: non un ristorante nel senso tradizionale, ma uno spazio vivo, dove si mangia, si canta, si conversa.

Amanda non ha soldi, ma ha cuore, forza e mani instancabili. Così, con gli strumenti che ha — una stufa, un tavolo, qualche sedia, e la sua voce — apre una piccola locanda popolare.

Quello spazio diventa anche un punto di riferimento nel quartiere, un rifugio per molti. E per Víctor, ancora bambino, è una scuola: lì vede l’umanità vera, ascolta storie, respira il canto, e comincia a capire il valore della solidarietà.

Santiago, per Amanda, è insieme rifugio e sfida. È lì che, nella lotta quotidiana, forgia il carattere di un figlio che diventerà simbolo di dignità per tutto un popolo.

Dormono tutti in un solo letto, per mancanza di spazio. Ma la notte si ride da matti.

Amanda non pensa alle difficoltà, lei le risolve con la determinazione feroce di una madre che sa che solo la costanza e la volontà possono aiutarla a cambiare le cose, e fa tutto ciò che serve per proteggere i suoi figli.

Manda Víctor a una scuola cattolica lì vicino, e sceglie il liceo Ruiz Tagl per il fratello Lalo

È in questo periodo che Víctor entra nell’Azione Cattolica, in una chiesa vicina al banco che sua madre Amanda tiene alla Vega Poniente.

La morte della madre avviene una mattina all’improvviso.

È ancora giovane, ma è stata consumata dal lavoro e dalla povertà.

Chiude gli occhi in una stanza umile della periferia di Santiago. Non ci sono ospedali, né cure. Solo il silenzio pesante delle case umili e la solitudine delle donne che hanno dato tutto.

Muore senza clamori, come ha vissuto: con dignità.

Ma il colpo per Víctor è tremendo. Amanda non è solo sua madre: è la radice, la forza, la prima voce che gli ha insegnato a cantare.

È colei che gli ha insegnato che la povertà non è vergogna, se cammini con la schiena dritta. È quella che gli ha passato il testimone della lotta, del canto, dell’amore per il popolo.

Dopo il funerale, che si svolge in povertà, Víctor cerca un senso, un rifugio, un ordine, e forse anche una forma di pace. Così sceglie di entrare nel seminario Redentorista di San Bernardo. Non perché avesse una vocazione profonda, come dirà lui stesso più avanti, ma perché cercava una risposta spirituale al dolore e una disciplina capace di dare forma al caos interiore.

Nel seminario trova rigore, ritualità, canto gregoriano, silenzio e studio. Ma anche un vuoto.

“Credo che sia stata una scelta intima, affettiva. Guardandola oggi, con altri occhi, mi rendo conto che fu la solitudine a portarmi a quella scelta. Ebbi un crollo. Quando perdi all’improvviso quel mondo che credevi solido — una casa, una madre, un affetto — ti aggrappi a ciò che resta. E quel che restava era un ragazzo, un amico vicino alla Chiesa. Così mi sono rifugiato lì. Mi sembrava che quel rifugio potesse darmi altri valori, un’altra forma di affetto più profonda, che potesse colmare quel vuoto interno. Credevo di poter trovare quell’amore nella religione. Credevo di poterlo trovare nel sacerdozio.”

Dopo due anni, capisce che la sua non è vera vocazione, e lascia il collegio ecclesiastico per ritornare a vivere pienamente nel mondo reale.

Quel mondo che sua madre aveva affrontato con coraggio e amore, e che ora lui doveva continuare a raccontare, con la voce e con il cuore.

“Mi accorsi che era solo uno stato d’animo, una necessità passeggera. Più cresceva l’impegno richiesto dallo studio, più quella disciplina stringente mi mostrava che il problema era altrove.”

Appena dieci giorni dopo aver lasciato il seminario, Víctor riceve la chiamata per il servizio militare. Anche quello è un passaggio brusco, una discesa rapida in un altro mondo:

“Avevo vissuto un periodo isolato, senza le esperienze normali di qualsiasi ragazzo della mia età. Appena uscito dal seminario, fu come trovarmi di nuovo davanti a cose che avevo dimenticato. Come se mi fossi fermato nel tempo. E poi, di colpo, ci ricadi dentro. Ma non in piedi: ci cadi di testa, di lato, male, a casaccio.”

Dopo il servizio militare, sentendo la mancanza della musica, Víctor legge per caso un annuncio su un giornale: cercavano voci per il coro universitario. Decide di presentarsi e viene accettato come tenore. Partecipa allo spettacolo “Carmina Burana” diretto da Uthoff al Teatro Municipale. Sul palco, vestito da monaco con una tonaca marrone, Víctor canta e ricomincia a sentire la pelle vibrare.

È in questo periodo che la sua vita artistica inizia a prendere forma. Nel 1955, grazie al suo accesso al Teatro Municipale, assiste ad uno spettacolo del gruppo di mimi guidato da Enrique Noisvander. Víctor si avvicina al gruppo con timidezza ma con intenzione chiara: vuole farne parte.

Lo mettono alla prova e lo prendono subito, riconoscendo la sua capacità innata di dare corpo al silenzio.

Nel 1956, Víctor sostiene l’esame di ammissione alla Scuola di Teatro dell’Università del Cile. In principio è agitato, inibito, con abiti ereditati: la giacca troppo corta, le scarpe con la suola spessa che gli stringono i piedi.

Ma non si fa fermare da queste difficoltà. Si toglie le scarpe e, scalzo, si mette di fronte alla commissione.

“Molti mi conoscono come cantante, ma non sanno che dirigo un teatro. In realtà ho iniziato nel 1958 con il gruppo folklorico Cuncumén. Ed è proprio in quel periodo che sono entrato alla Scuola di Teatro dell’Università del Cile. Ho sempre portato avanti le due cose insieme. Rispondevano entrambe a un bisogno profondo. A un’urgenza.”

È durante il suo periodo con il gruppo Cuncumén che Víctor comincia il suo cammino politico. Si iscrive alle Gioventù Socialista.

Il suo impegno non è mai superficiale:

“Ero già un giovane impegnato. Facevo parte delle gioventù comuniste. Non sono mai stato distante dalla politica. Quando ascoltavo certi discorsi, mi sentivo toccato, rappresentato. Venivo da una famiglia di contadini, avevo vissuto sulla mia pelle l’ingiustizia, la povertà, la fame. E questo mi ha spinto a scegliere, a prendere posizione.”

Scende convinto l’ideologia socialista perché crede che fosse lo strumento più giusto per trasformare il mondo, restituire dignità ai lavoratori, e costruire qualcosa di nuovo e umano:

“Il compromesso è una questione di principi. E non c’è vero impegno senza una posizione ideologica nella vita. Chi vuole davvero interpretare l’anima del popolo deve camminare molto, deve perdersi, cercare, trovare. Sentirsi un essere umano utile agli altri.”

Quando il gruppo di Víctor supera gli esami finali, prende una decisione coraggiosa: non voleva entrare subito nella compagnia stabile di teatro.

Scelgono invece di restare uniti per un altro anno, creando una propria piccola compagnia con il sostegno della Scuola. Vogliono portare il teatro nei paesi, nei villaggi dimenticati, dove le grandi compagnie non arrivavano mai.

Per partecipare al Festival del Teatro Studentesco, Víctor propone ad Alejandro Sieveking, un promettente drammaturgo suo compagno di corso, di scrivere una pièce breve: quattro personaggi, una sola stanza. Lui la dirigerà.

La scrivono in una settimana e la intitolano “Somigliante alla felicità” (Parecido a la felicidad) e la rappresentazione dello spettacolo è un trionfo, un successo clamoroso.

La critica si mostra subito entusiasta per quella pièce, e il pubblico viene colpito, commuovendosi per la verità che si nasconde in quella rappresentazione.

Organizza una tournée in tutta l’America Latina, e anche lì la gente decreta il successo. Finalmente a teatro si respira qualcosa di vero.

Qualcosa che, sì, somigliava alla felicità.

Dopo quell’esperienza, Víctor decide di specializzarsi in Regia Teatrale

“Tra il 1962 e il 1963 terminai i miei studi in Regia Teatrale, e l’Istituto di Teatro dell’Università del Cile mi assunse come parte del suo corpo stabile di registi. Il mio esame finale fu la messa in scena dell’opera ‘Ánimas de Día Claro’ di Alejandro Sieveking. Ne composi anche le musiche.”

“Ánimas de Día Claro” diventa presto un classico del teatro cileno. Rimane in cartellone per sei anni consecutivi, acclamata dalla critica.

La rivista Mensaje scrive: “Con questa opera si è ottenuto qualcosa che i nostri drammaturghi e attori raramente riescono a raggiungere: emozionare davvero.”

Durante la Guerra Fredda, il Cile subisce un processo sempre più soffocante di colonizzazione politica, economica e culturale.

Come risposta, nasce un movimento culturale progressista, che oppone all’omologazione una nuova visione popolare, radicata nella storia e nella terra, capace di proporre un’alternativa vera alla cultura dominante.

La Nueva Canción Chilena nasce da questa esigenza di resistenza culturale. Affonda le sue radici nei grandi maestri: Violeta Parra e Atahualpa Yupanqui. E si nutre del vento caldo della rivoluzione cubana.

“La Nueva Canción Chilena nasce all’interno di un movimento culturale ispirato da Pablo Neruda. Il suo scopo è di liberarsi dall’influenza dell’imperialismo culturale americano e recuperare i valori profondi della nostra identità.

Nel 1953, mentre il mondo si divide lungo le rigide linee della Guerra Fredda, Santiago del Cile diventa l’epicentro di una rivoluzione silenziosa. Una rivoluzione che non si combatte con le armi, ma con le parole, le immagini, le note musicali. In quell’anno Pablo Neruda che conosceva il potere delle parole dà vita al Congresso Continentale per la Cultura.

Le strade di Santiago in quei giorni respirano un’aria diversa in quei giorni. Neruda, già famoso in tutto il mondo, chiama a raccolta le menti più lucide dell’America Latina. Non è un semplice incontro letterario. È una dichiarazione di indipendenza culturale, un grido di resistenza contro il processo sempre più soffocante di nord americanizzazione che sta invadendo il continente.

Il Cile di quegli anni vive un momento di transizione.

Dopo il governo del generale Carlos Ibáñez del Campo, dopo la breve fiammata della Repubblica Socialista, il paese cerca ancora la sua strada. E l’élite culturale sente la responsabilità di creare un modello culturale che non sia semplice imitazione dei modelli stranieri.

Nelle sale del congresso si parla di identità, di radici, di come costruire una cultura autentica in un mondo che spinge sempre più verso l’omologazione.

Le discussioni tra tutti sono appassionate, a volte accese. C’è chi vede nel folklore la chiave di una rinascita culturale, chi guarda all’indigenismo come una fonte primaria, chi propone sintesi nuove tra tradizione e modernità.

Neruda, con la sua figura massiccia e la voce profonda, è l’anima di questo movimento. Ferito dalla Guerra Civile Spagnola, testimone dell’assassinio dell’amico García Lorca, il poeta capisce che la cultura non deve essere un lusso, ma una necessità vitale per un popolo che vuole restare libero.

Tra i corridoi e le sale, tra un caffè e l’altro, si incontrano figure che avrebbero segnato la storia culturale del continente. C’è Gabriela Mistral, Premio Nobel per la Letteratura, con il suo sguardo penetrante e la sua saggezza antica. Ci sono giovani poeti e artisti che ascoltano con reverenza i vecchi maestri, assorbendo idee, sognando un futuro diverso.

Le pareti delle sale sembrano vibrare al ritmo di quelle discussioni. Si parla di salvare i valori profondi dei popoli latinoamericani dalla penetrazione dell’imperialismo. Di come il canto mapuche, il canto quechua, il canto aymara possono ancora svolgere compiti nella trasformazione del continente.

È una visione che rifiuta il colonialismo culturale. Che rifiuta l’idea che la cultura possa essere importata o imposta. Che afferma con forza che ogni popolo ha il diritto – e il dovere – di creare le proprie forme espressive, radicate nella propria storia.

Questo congresso non produce manifesti eclatanti o dichiarazioni che fanno il giro del mondo. La sua importanza è più sottile, più profonda, come lo sono le cose davvero importanti e come un seme piantato nella coscienza culturale del continente, darà dato i suoi frutti negli anni a venire.

Un anno dopo, nel 1954, nasce il Primo Congresso Nazionale dei Poeti Popolari, con protagonisti come Violeta Parra, Gabriela Pizarro e molti altri.

È lì che si afferma la necessità di rivalutare le forme tradizionali della cultura popolare, una scintilla che viene raccolta, negli anni ’60, da nuovi trovatori urbani e dai gruppi che daranno vita al movimento della Nueva Canción Chilena.

Nel cuore di Santiago, in quelle giornate di intenso dibattito, si sta costruendo qualcosa che va oltre la politica contingente, oltre le dispute ideologiche.

Si definisce una visione della cultura come strumento di liberazione, come modo per dare al popolo la propria voce.

Neruda lo aveva già intuito nei suoi versi: “Per nascere sono nato.”

E quel congresso è, in fondo, un invito a un’intera cultura a nascere di nuovo. A nascere più consapevole, più autentica, più radicata nella terra e nei volti della sua gente.

Non è un caso che proprio da lì, da quel fermento, emergono movimenti artistici che segneranno la storia: la Nueva Canción, il muralismo politico, un teatro nuovo e vitale. E non è un caso che un giovane Víctor Jara, che allora era solo un ragazzo che sognava tra i campi di Lonquén, avrebbe un giorno raccolto quella fiaccola, portandola nelle strade, nelle università, nelle fabbriche.

Il Congresso Continentale per la Cultura fu, in ultima analisi, un atto di fede. Fede nel potere trasformativo dell’arte. Fede nella capacità dei popoli latinoamericani di creare una cultura propria, libera dai modelli imposti. Fede in un futuro dove la voce dei poeti potesse essere ascoltata quanto quella dei potenti.

Una fede che avrebbe resistito a dittature, censure, esili. Una fede che, anche oggi, continua a ispirare artisti e pensatori in tutto il continente. Perché, come avrebbe detto anni dopo Víctor Jara: “La cultura non appartiene solo ai ‘militanti’, ti apre gli occhi, ti permette di vedere più a fondo, di capire le radici del nostro male.”

Ed è proprio a quel Congresso di Santiago che quelle radici potenti cominciano ad essere nominate, denunciate, messe a nudo.

Victor Jara diventa una delle figure centrali di questo movimento, insieme a Ángel e Isabel Parra, Patricio Manns, Rolando Alarcón, e tanti altri.

Insieme danno voce a un popolo, creando canzoni poetiche e potenti, radicate, sincere, che sarebbero rimaste nella storia del Cile.

La Nueva Canción Chilena non è un’invenzione intellettuale, ma un canto che esplode perché doveva esplodere, perché il popolo aveva bisogno di raccontarsi.

“Io canto nei sindacati, alle feste contadine, nei gruppi di minatori. Anche se sono analfabeti, capiscono senza analizzare. Si commuovono. Si aprono. Mi raccontano i loro dolori, i loro problemi. Confesso che la loro fede lusinga la mia vanità… ma mi spinge anche in avanti, mi dà forza.”

Violeta Parra vive a La Reina, alla periferia di Santiago, vicino alle montagne in una casetta semplice, raccolta, piena di silenzio e visioni. Víctor va spesso a trovarla, passando intere giornate con lei. Violeta si interessa al suo modo di suonare la chitarra, alla sua voce, al suo stile. Lo incoraggia, dicendogli: “Vai avanti, Víctor, vai avanti.”

Violeta esercita una fortissima influenza sulla musica e sulla visione artistica di Víctor. Hanno la stessa idea: il folklore non deve essere un museo, ma una forza viva, parte della creazione, dell’impegno, della verità artistica e sociale.

“Credo che nessuno di noi abbia il diritto di ergersi a giudice implacabile, neanche dogmatico, nei confronti del folklore. Il folklore autentico è vivo, attuale, presente. Non è affatto morto. È pericoloso e un po’ egoista considerarlo un oggetto archeologico del secolo scorso, da interpretare solo come tale, altrimenti ‘non vale niente’. È assurdo. Il folklore è arte vera, in tutto e per tutto. La sua essenza è umana. E l’artista che riesce a interpretare quell’essenza umana, è un artista valido, necessario.”

La Nueva Canción Chilena raggiunge la sua massima espressione con l’elezione di Salvador Allende e l’ascesa dell’Unidad Popular.

Per gli artisti popolari cileni, partecipare attivamente alla nascita di un governo del popolo è un’esperienza fondamentale:

“Quel desiderio comune ci permise, finalmente, di conoscerci non solo come nomi o come voci, ma come esseri umani, uniti nella stessa lotta.”

Durante la campagna elettorale del 1970, la Nueva Canción Chilena esplose. Ogni artista, ogni gruppo, ogni poeta si mobilitò per sostenere l’Unidad Popular. Con l’uscita del suo primo LP, “Pongo en tus manos abiertas”,

Víctor Jara si consegna al progetto completamente: cuore, voce, anima.

“Sì, credo di essere un uomo appassionato, perché ho dentro tante speranze. E anche audace, per combattere la mia timidezza. Ma soprattutto sono felice. Felice di esistere in questo momento. Felice di sentire la fatica del lavoro. Perché, quando si lavora con il cuore, la ragione e la volontà al servizio del popolo, si prova la gioia di rinascere.”

Quando Allende vince le elezioni, alle 00:05 del 5 novembre 1970, la Alameda si riempie come mai prima. Uomini e donne si arrampicano sui pali della luce, sugli alberi, sui muri, nel Cerro Santa Lucia Sorella, nella speranza di vedere Allende parlare al popolo.

Abbracci, lacrime, gioia incontrollata.

Una frase girava per la città, più di tutte sembrava racchiudere il momento: “La casa è tua.” La casa, finalmente, era del popolo lavoratore, che per secoli aveva abitato solo nelle retrovie”.

Il governo dell’Unidad Popular da un ruolo centrale alla cultura e all’arte.

Un treno della cultura percorre il paese da nord a sud, portando teatro, musica, danza in luoghi dove l’arte non è mai arrivata.

Si crea una rete di teatro amatoriale da Arica a Punta Arenas. Il cinema ha un forte impulso. Le città si riempie di murales realizzati da brigate di giovani pittori.

“Ora siamo tanti. E galoppiamo insieme. Abbiamo conquistato il diritto di costruire una vita nuova. Le mie canzoni, queste nuove canzoni, non sono che la mia gioia, il mio desiderio, la mia speranza. Perché so — ne sono certo — che insieme, costruiremo una casa per vivere in pace.”

Nel teatro, Víctor trova un territorio fertile e immenso e diventa un regista creativo, appassionato, capace di portare sulla scena non solo nuove forme estetiche, ma anche i grandi conflitti e le contraddizioni della sua epoca.

Una delle sue opere più significative è la direzione di “Viet Rock” di Megan Terry, che racconta la tragedia collettiva di un popolo, di madri e soldati obbligati a partire per una guerra che non capivano, che non volevano, che non era la loro.

Nel 1969, Víctor viene invitato a Helsinki come compositore e interprete, al Congresso Internazionale con la gioventù vietnamita.

La sua ammirazione per il popolo del Vietnam e per il presidente-poeta Ho Chi Minh è cresciuta. E quando, sempre nel 1969, studenti, sindacalisti, artisti, partiti politici e centinaia di organizzazioni popolari chiamano il Cile a marciare da Santiago a Valparaíso in solidarietà con il Vietnam, una marea umana risponde.

Nel 1971, Víctor regista quella che sarebbe diventata una delle sue canzoni più emblematiche: “El derecho de vivir en paz” (Il diritto di vivere in pace), dedicata a Ho Chi Minh e al popolo vietnamita.

Ma l’esperienza dell’Unidad Popular viene tragicamente interrotta.

È L’alba dell’11 settembre 1973: il Cile si sveglia in guerra. Già da settimane il clima in Cile è teso: scioperi, sabotaggi, penurie alimentari, e soprattutto voci sempre più insistenti di un colpo di Stato imminente.

Il governo di Salvador Allende, eletto democraticamente nel 1970, sta cercando di attuare una profonda riforma socialista per vie pacifiche — una via considerata inaccettabile dagli Stati Uniti, dalla borghesia cilena e da ampi settori delle forze armate.

All’alba, i principali reggimenti militari si muovono.

A Santiago, Valparaíso e Concepción le caserme vengono attivate. Le truppe prendono il controllo delle radio, dei giornali e dei punti nevralgici della capitale. Gli ufficiali fedeli al governo vengono arrestati o uccisi.

Sono le sette del mattino quando Le forze armate occupano la città. I militari, guidati dal generale Augusto Pinochet, prendono possesso delle strade e dei quartieri. I carabinieri, inizialmente neutrali, si schierano con i golpisti. Le comunicazioni telefoniche con La Moneda vengono interrotte. L’esercito controlla gli accessi alla città, impedendo qualsiasi resistenza popolare.

Alle Ore 8.15 Le radio, ormai sotto controllo, trasmettono il messaggio dei comandanti delle forze armate: “Le forze armate e carabineros del Cile si sono uniti per restaurare l’ordine repubblicano e liberare il paese dal marxismo”. È ufficiale: il golpe è in corso. Viene chiesto a Salvador Allende di dimettersi e consegnarsi.

Alle 9,00 Allende si trova nel Palacio de La Moneda, circondato da un manipolo di fedelissimi, tra cui medici, collaboratori, guardie del corpo e qualche carabiniere leale. Armato di un fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro, decide di restare fino alla fine.

Si rivolge al popolo con un discorso alla radio…

“Tengo fe en Chile y su destino… Mucho más temprano que tarde, de nuevo se abrirán las grandes alamedas por donde pase el hombre libre para construir una sociedad mejor.”

È la sua ultima dichiarazione pubblica.

Alle ore 11 Due aerei Hawker Hunter dell’aviazione cilena compiono una manovra di guerra: bombardano La Moneda, il palazzo presidenziale, nel cuore di Santiago. Le esplosioni fanno tremare la città. Le immagini del palazzo avvolto dalle fiamme faranno il giro del mondo.

Allende, si suicida nel Salón Independencia con il suo fucile.

È un gesto forte che fa per non lasciare che i golpisti possano vantarsi di averlo giustiziato. La Moneda è ormai completamente distrutta. I pochi superstiti vengono arrestati o uccisi sul posto. La giunta militare, guidata da Pinochet, assume ufficialmente il potere. Inizia una dittatura sanguinosa che durerà fino al 1990.

Subito dopo il golpe, inizia la caccia all’uomo: leader sindacali, intellettuali, studenti, militanti di sinistra vengono arrestati, torturati, assassinati o costretti all’esilio.

Lo Stadio Nazionale e lo Stadio Chile vengono trasformati in campi di concentramento.

I primi giorni, vengono uccise migliaia di persone o fatte sparire

La CIA e la ITT, secondo documenti desecretati, sono pienamente coinvolte nella preparazione del golpe.

Víctor Jara in quel giorno si trova nella sua università, la Universidad Técnica del Estado, dove lavora come professore e direttore teatrale.

Come tanti altri artisti, professori e studenti, si rifiuta di fuggire o di nascondersi. Quella mattina, l’esercito circonda l’università. Tutti vengono arrestati.

Viene trascinato insieme a centinaia di persone nello Stadio Chile, trasformato in campo di concentramento. Un luogo dove regna la paura, la tortura, la brutalità. Il poeta diventa prigioniero.

Appena i soldati scoprono chi è, iniziano a torturarlo con particolare ferocia. Sanno chi è: un cantautore, comunista, popolarissimo. Una voce del popolo. Una voce che dev’essere spenta.

Víctor viene separato dagli altri. I soldati gli fratturano le dita e i polsi, con il calcio dei fucili, lo deridono, lo sfidano a cantare. Alcuni testimoni raccontano che con le mani frantumate si alza e intona “Venceremos”, una delle canzoni simbolo dell’Unidad Popular.

“Canta, canta adesso, comunista!”

gridano i soldati.

E lui canta. Canta anche senza chitarra, anche senza mani.

All’interno dello stadio, scrive un poema. Lo compone a memoria, lo detta ai compagni, alcuni dicono che lo scrisse su pezzi di carta nascosti nei vestiti. Il poema si intitola “Somos Cinco Mil” — “Siamo in cinquemila”.

Un atto estremo di arte e resistenza. Quelle parole raccontano il terrore, la solidarietà, la brutalità dei carnefici. Quelle righe, miracolosamente salvate, diventeranno la sua ultima canzone, la sua ultima testimonianza.

Quei versi, imparati a memoria da chi stava con lui nello stadio, come in una staffetta riescono ad arrivare fino a Joan la moglie

“Siamo cinquemila
in questo piccolo angolo di città.
Siamo cinquemila.
Quanti saremo in tutto
nelle città, in tutto il Paese?
Solo qui, diecimila mani che seminano
e fanno muovere le fabbriche.
Quanta umanità
affamata, infreddolita,
con paura, con dolore,
con terrore e follia…”

La poesia continua, descrivendo l’orrore del fascismo, la brutalità della repressione. E terminava con versi che sono diventati immortali:

“Canto, come male mi esci
quando devo cantare l’orrore!
Orrore come quello che vivo,
come quello in cui muoio, orrore.
Di vedermi tra così tanti e così solo,
momento dell’infinito
in cui il silenzio e il grido
sono le due estremità di questo canto.
Ciò che vedo, non l’ho mai visto.
Ciò che sento, e ho sentito,
farà sbocciare il momento…”

Il suo corpo, privo di documenti, viene ritrovato all’obitorio dalla sua compagna, Joan.

Quattro giorni prima del golpe, avevano chiesto a Víctor che significato avesse per lui la parola “amore”. La sua risposta è un testamento spirituale che riassume tutta la sua visione del mondo:

“L’amore per la mia casa, per mia moglie e i miei figli.”
“L’amore per la terra che mi permette di vivere.”
“L’amore per l’educazione e per il lavoro.”
“L’amore per gli altri che lavorano per il bene comune.”
“L’amore per la giustizia come strumento di equilibrio per la dignità dell’uomo.”
“L’amore per la pace, per godere della vita.”

“L’amore per la libertà — non per il libero arbitrio. Non per la libertà di alcuni di vivere sulle spalle degli altri; ma per la libertà di tutti. La libertà perché io possa esistere, e possano esistere i miei figli, la mia casa, il mio quartiere, la mia città, i popoli e tutti i luoghi dove ci è toccato in sorte di costruire il nostro destino. Senza catene nostre, né catene straniere.”

La dittatura militare tenta di cancellare ogni traccia di Víctor Jara. Il suo nome deve essere censurato, la sua musica eliminata, distrutta la sede della casa discografica, eliminato tutto il materiale e le registrazioni originali. Come se non fosse mai esistito.

Ma la memoria non si è mai spenta. Nel dicembre 1973 vengono organizzati i concerti in suo onore a Parigi, poi a Roma, a Berlino, a San Francisco. Ovunque.

Perché la voce di Víctor è ormai entrata nella storia, ed è diventata simbolo di resistenza e speranza.

Oggi, a distanza di decenni, Victor Jara continua a vivere attraverso la sua musica, le sue parole, il suo esempio. La sua eredità ispira nuove generazioni di artisti, attivisti, sognatori. Perché, come lui stesso diceva, “un artista vero è un creatore autentico. È un uomo pericoloso come un guerrigliero, perché ha un potere enorme: il potere di comunicare.”

E quel potere, quel messaggio, quella voce che cantava per “quelli che non possono andare all’università, per quelli che vivono duramente del loro lavoro, per quelli che vengono sfruttati e ignorati, per tutti quelli che si chiamano popolo”, continua a risuonare, potente e inestinguibile.

Victor Jara vive oggi nella memoria collettiva come simbolo di un sogno interrotto ma non sconfitto: il sogno di un Cile – e di un mondo – più giusto, più umano, più libero. Un mondo dove tutti abbiano, davvero, “il diritto di vivere in pace”.

“La mia canzone non è soltanto mia,

ma di tutti quelli che la fanno propria.”

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Bibliografia

Jara, Joan – Victor: An Unfinished Song, Jonathan Cape, 1983 (ed. italiana: Victor Jara. Una canzone incompiuta, Edizioni Alegre, 2005)

Dorfman, Ariel – La muerte y la doncella, Planeta, 1990 (per contesto post-golpe)

Parra, Violeta – Décimas autobiográficas, Lom Ediciones, 1999

Sieveking, Alejandro – testi teatrali e testimonianze in interviste pubblicate

Associazione Víctor Jara – Archivio digitale (Fundación Víctor Jara)

Fonti giornalistiche e d’archivio: El Siglo, La Tercera, El Mercurio, The Guardian, Washington Post

Documentari audiovisivi:

– El derecho de vivir en paz (TVN – Televisión Nacional de Chile)

– Víctor Jara: El canto libre, dir. Carmen Luz Parot, 2013

– Violeta se fue a los cielos, dir. Andrés Wood, 2011


Gianluca Medas

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