Perché non parliamo mai di orari, fatica e respiro nella politica?

C’è una parola che raramente entra nei discorsi politici, anche in quelli che si dicono più avanzati, più giusti, più attenti alla vita delle persone. È la parola tempo.

Il tempo concreto, quotidiano, umano. Quello che ciascuna e ciascuno di noi ha, o non ha, per vivere. Il tempo per dormire senza ansia, per pensare senza colpa, per fermarsi senza sentirsi in difetto. Il tempo che manca a chi lavora su turni spezzati, a chi accudisce figli o genitori, a chi tiene insieme più lavori e più fragilità. Il tempo che diventa privilegio, perché non è mai distribuito in modo equo.

Si discute di salari, di crescita, di produttività, di Pil. Molto meno di orari. Quasi mai di stanchezza. Ancora meno di respiro.

Eppure senza tempo libero non c’è libertà reale. Senza tempo per sé non c’è partecipazione autentica. Senza tempo per la cura, propria e altrui, non può esserci giustizia sociale. Una democrazia che ignora il tempo è una democrazia che parla solo a chi può permetterselo.

Il nostro modello istituzionale è costruito su una concezione del tempo rigida, standardizzata, apparentemente neutra. Riunioni infinite, partecipazione serale, presenza continua, disponibilità costante. È una democrazia pensata per chi ha margini, energie, deleghe invisibili. Così facendo, finisce per escludere in silenzio una parte enorme della società.

Nel cuore del Sudamerica, però, qualcuno ha avuto il coraggio di dire una cosa semplice e radicale: il tempo è politica.

José Pepe Mujica non è stato solo un presidente sobrio, né soltanto l’uomo che viveva in una casa modesta e guidava una vecchia automobile. Mujica è stato, prima di tutto, un pensatore del limite. Del limite come scelta. Del limite come atto di libertà.

La sua riflessione sul tempo non era teorica. Nella sua vita, nel suo modo di governare, nel linguaggio spoglio che usava per parlare di economia, consumo, felicità. Quando diceva “Quando compri qualcosa, non lo paghi con i soldi. Lo paghi con il tempo della tua vita che hai dovuto spendere per guadagnare quei soldi” stava rovesciando l’intero paradigma capitalistico. Stava dicendo che il vero costo delle cose non è economico, ma esistenziale.

Per Mujica, la povertà più grave non è avere poco, ma non avere tempo. Essere costretti a vendere ogni ora della propria vita per sopravvivere. Essere prigionieri di un ritmo che non si sceglie. In questo senso, la sua idea di sobrietà è stata una critica politica profonda alla colonizzazione del tempo umano.

Liberare il tempo, per lui, significava liberare le persone. Ridare spazio alla relazione, al pensiero, alla comunità, all’amore. Restituire alla politica il compito di proteggere la vita, non di divorarla.

Questa lezione oggi è più attuale che mai. Perché la lotta per il salario resta centrale, ma non basta più se non è accompagnata da una lotta altrettanto forte per il tempo. Il tempo di cura, di creazione, di lentezza. Il tempo che non genera profitto, ma senso. Il tempo che consente di sbagliare, di cambiare idea, di scegliere davvero.

Le donne conoscono da sempre il peso politico del tempo. Vivono tempi sovrapposti, compressi, invisibili. Il lavoro retribuito e quello non pagato. La cura, l’ascolto, la gestione emotiva. Una vera riforma del tempo renderebbe visibile ciò che oggi viene dato per scontato.

E anche i giovani, spesso accusati di apatia, sono in realtà schiacciati da una violenza temporale continua. Devono produrre subito, riuscire presto, costruire tutto in fretta. Non hanno diritto all’attesa, all’errore, al silenzio. Non hanno tempo per diventare.

Parlare di democrazia del tempo significa allora ripensare tutto. I ritmi del lavoro, i luoghi della partecipazione, la struttura stessa delle istituzioni. Significa chiedersi se la politica sia davvero accessibile anche a chi non ha tempo da regalare. E se possa tornare ad essere uno spazio che protegge la vita invece di consumarla.

Forse è proprio il tempo la nuova frontiera delle disuguaglianze. Non si vede, non si contabilizza facilmente, ma decide tutto. Decide chi può partecipare, chi può scegliere, chi può immaginare un futuro. Chi può permettersi di dedicare tempo a ciò che ama è privilegiato. Chi lo scambia continuamente per sopravvivere vive in una libertà dimezzata.

Una vera rivoluzione democratica non può ignorare questo nodo. Non può continuare a parlare solo di numeri, di efficienza, di performance. Deve tornare a parlare di relazioni, di vita vissuta, di respiro.

Perché oggi anche respirare, davvero, è un gesto politico. E ogni respiro sottratto è un diritto che lentamente scompare.

La Presidente

Federica Cannas

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