(Federica Cannas) – Dici “Davis 1976 in Cile” e vengono in mente almeno tre cose intrecciate tra loro.

Una squadra italiana tecnica e piena di carattere, un regime militare che aveva utilizzato lo stadio come centro di detenzione subito dopo il golpe, e un Paese, l’Italia, spaccato tra chi chiedeva il boicottaggio e chi rivendicava il diritto di giocare.

In mezzo, Pietrangeli, Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli. Cinque persone strutturalmente incapaci di essere diplomatiche, tanto tra di loro quanto con il resto del mondo. Ed è proprio questa mancanza di ipocrisia che, paradossalmente, li tiene insieme e li porta alla vittoria.

La Coppa Davis 1976 è la 65ª edizione del torneo e si chiude con una finale che non è solo sportiva. Il Cile è governato da tre anni dalla dittatura di Augusto Pinochet, nata dal golpe dell’11 settembre 1973 che rovescia il presidente socialista Salvador Allende. La repressione è brutale, con più di tremila morti e desaparecidos e migliaia di oppositori torturati.

Lo scenario è l’Estadio Nacional di Santiago, diventato subito dopo il golpe un enorme campo di detenzione e tortura, dove tra il 1973 e il 1974 vengono internate decine di migliaia di persone. Nel 1976 non era più utilizzato come luogo di prigionia, ma restava un simbolo potentissimo di ciò che era accaduto.

È in questo complesso che, dal 17 al 19 dicembre 1976, si gioca Cile–Italia. L’Italia è fortissima, guidata dal capitano non giocatore Nicola Pietrangeli e da un gruppo che farà storia: Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli.

Sul piano puramente tecnico la finale ha poca storia. Ma ridurre tutto a un tabellino sarebbe sbagliato. Quella Davis è un condensato di politica, scelte morali e caratteri difficili.

Già la semifinale della Davis è segnata dalla politica. L’Unione Sovietica rifiuta di volare a Santiago in segno di protesta contro il regime di Pinochet e viene squalificata per due anni dalla competizione, con il Cile che arriva in finale senza giocare.

In Italia, dopo la vittoria in semifinale contro l’Australia, esplode il dibattito. Organizzazioni sportive di base, movimenti di sinistra, intellettuali e una parte consistente del PCI chiedono di non andare in Cile, sostenendo che disputare la finale significhi legittimare la dittatura.

Nelle piazze compaiono slogan durissimi. Gli Inti-Illimani, il gruppo musicale cileno in esilio in Italia, diffondono un appello in cui definiscono Santiago “un falso finalista” e invitano gli azzurri a rinunciare, per trasformare il boicottaggio in un gesto di civiltà.

Pietrangeli, Panatta e compagni sono al centro di polemiche aspre. Anni dopo, lo stesso capitano racconterà di aver dovuto convincere anche il governo italiano, spiegando che non andare in Cile avrebbe significato “regalare la Davis a Pinochet”.

Alla fine la scelta è chiara. Si va. Ognuno con la propria coscienza e il proprio modo di stare al mondo. Una squadra di talenti con personalità forti, spesso in conflitto tra loro e con il capitano.

Non c’è niente di patinato in loro. Litigano sul serio, si dividono, discutono sulle convocazioni e sulle scelte tecniche. Il rapporto tra Pietrangeli e alcuni giocatori è teso e quei conflitti porteranno di lì a poco alla sua estromissione dal ruolo di capitano.

È una squadra lontanissima dal perbenismo e dalle formule di circostanza che siamo abituati a sentire oggi. La serie e molte ricostruzioni giornalistiche la descrivono come “divisa, frammentata, con rapporti difficili e conflittuali”. Eppure, quando si tratta di scendere in campo, la franchezza diventa forza. Nessuno finge che vada tutto bene, ma tutti sanno che l’obiettivo è comune.

Quella mancanza di ipocrisia si vede anche nel modo in cui parlano della politica cilena. Panatta, che viene da un ambiente romano borghese ma sente forte la simpatia per la sinistra, non si nasconde mai dietro al “noi pensiamo solo a giocare”. Anni dopo dirà di non essersi sentito un paladino della libertà, ma di sapere benissimo dove stava andando a giocare e cosa rappresentava quel luogo.

Pietrangeli, dal canto suo, è altrettanto diretto. Non cerca di ingraziarsi nessuno. Rivendica di aver voluto quella trasferta perché era convinto che l’Italia potesse vincere la Davis e perché, a suo modo, crede che mostrare una squadra italiana che trionfa nell’“insalatiera” davanti a Pinochet sia una risposta più forte di un’assenza.

Il momento simbolico arriva il 18 dicembre, nel doppio decisivo. Panatta e Bertolucci entrano in campo con una maglietta rossa preparata dallo sponsor insieme a quelle bianche e azzurre. È Panatta a proporlo al compagno. Bertolucci, a metà tra l’ironia e la paura, lo avverte del rischio. Poi va in campo con lui.

Rosso in Cile, sotto una dittatura che ha massacrato la sinistra, non è un colore neutro. È un messaggio muto, lanciato da due giocatori che sanno che quella finale è già un compromesso e che almeno vogliono incidere una traccia visibile del loro dissenso. Tanto che il governo cileno presenterà una protesta ufficiale dopo la partita.

Quel gesto nel 1976 passa quasi sotto silenzio, in un’Italia che festeggia la vittoria più che interrogarsi sul modo in cui è arrivata.

Qui la schiettezza di quella squadra emerge con particolare evidenza. Nessuno di loro prova a riscrivere la storia in chiave eroica. Dicono semplicemente quello che pensano. Hanno scelto di andare a giocare. Hanno provato, nel loro perimetro, a non chinare la testa del tutto.

Mentre gli italiani alzano la Coppa, sugli spalti ci sono generali del regime e famiglie comuni. Il tennis arriva nello stesso luogo in cui, solo tre anni prima, i prigionieri politici venivano ammassati sulle gradinate e chiamati per nome verso l’interrogatorio e verso la morte.

Per i sopravvissuti e per chi da anni lavora alla memoria delle violazioni dei diritti umani in Cile, l’Estadio Nacional è diventato un luogo della memoria, con settori come la “Escotilla 8” trasformati in spazi di commemorazione.

L’Italia, invece, resta divisa a lungo su quella scelta. C’è chi continua a considerare quel viaggio una macchia, un’occasione mancata per schierarsi nettamente contro la dittatura. E c’è chi, al contrario, legge in quella vittoria e in quelle magliette rosse un esempio di come lo sport possa, pur tra contraddizioni e ambiguità, incrinare la retorica del regime.

Quella del 1976 è stata la prima, e per quasi cinquant’anni l’unica, Coppa Davis vinta dall’Italia. Gli stessi protagonisti l’hanno definita a volte una “felicità triste”. La gioia per un traguardo sportivo storico si mescola all’amarezza per il contesto in cui è stato raggiunto e per le fratture che si è portato dietro, dentro e fuori dal campo.

Se però c’è un tratto che tiene insieme quella squadra e quella storia, è proprio l’assenza di ipocrisia.

I quattro moschettieri e Pietrangeli non si sono mai presentati come soldati dell’antifascismo di maniera. Hanno litigato, hanno scelto, hanno sbagliato qualcosa e fatto bene qualcos’altro, dicendolo sempre con una franchezza quasi brutale.

Lo sport è spesso avvolto da comunicazione addomesticata e la Davis del ’76 in Cile continua a colpire anche per questo. Perché racconta una squadra di uomini contraddittori e diretti, che non hanno mai finto di essere migliori di quello che erano. E proprio per questo, forse, sono riusciti a resistere a un contesto politico ingestibile e a portare a casa, in mezzo a tutto quel rumore, l’unica insalatiera della storia del tennis italiano di allora.

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