
Parlare di Enrico Calamai e raccontarne la straordinaria storia fatta di coraggio e di ideali è un dovere oltre che un privilegio.
Nato a Roma nel 1945, dopo la laurea in Economia e Commercio intraprese quasi subito la carriera diplomatica.
E’ conosciuto come lo “Schindler di Buenos Aires”, essendo riuscito, nel periodo più buio e di intensa repressione del regime militare, ad aiutare, con vari espedienti, tanti giovani che cercavano una via di fuga dalla ferocia e dalla disumanità della dittatura argentina.
“Schindler” è un appellativo che non ha mai considerato appropriato per se stesso, ritenendo di non essere un eroe e di non aver fatto nulla di diverso da quello che avrebbe fatto chiunque si fosse trovato al suo posto.
Al momento del golpe, nel 1976, era di stanza al Consolato generale d’Italia a Buenos Aires e, prima come Viceconsole e poi come Console, si rese conto ben presto di quanto stava accadendo, avendo vissuto, due anni prima, in Cile, un’esperienza simile con i perseguitati politici del regime di Pinochet, che avevano trovato rifugio presso l’Ambasciata italiana a Santiago.
Rispetto a quanto accaduto in Cile, dove le televisioni avevano mostrato l’orrore del regime al mondo intero, in Argentina la giunta militare fu abilissima nel nascondere quanto accadeva nel Paese.
I militari agivano, nella maggior parte dei casi, di notte. Quelli che loro consideravano scomodi oppositori venivano rapiti e caricati su auto senza targa, le famigerate Ford Falcon verdi, divenute tristemente uno dei simboli di quegli anni, e venivano portati in centri clandestini di detenzione, per essere torturati e uccisi.
Era davvero facile essere considerati “scomodi”. Bastava tenere in tasca la copia di un libro messo al bando dalla dittatura oppure trovarsi nella rubrica di qualcuno considerato pericoloso. Chiunque era un potenziale desaparecido. Quando i familiari dei ragazzi scomparsi chiedevano dove fossero finiti i propri cari, il regime negava perfino di averli arrestati.
L’esperienza cilena gli consentì di non essere impreparato di fronte alla situazione che si stava verificando in Argentina e si prodigò in tutti modi, mettendo a rischio la sua stessa vita, anche con l’aiuto del giornalista Giangiacomo Foà, corrispondente del Corriere della Sera e del sindacalista CGIL Filippo di Benedetto, nel cercare di salvare tantissimi giovani, fornendo loro i documenti per l’espatrio e riuscendo a farli scappare.
Eppure, grazie alla sua capacità di ribellarsi a quell’orrore con estremo coraggio, furono salvate centinaia di vite umane.
Comprese subito che le sue funzioni in Consolato gli avrebbero permesso di dare una mano a chi chiedeva aiuto. Sapeva benissimo a quale fine tragica sarebbero andati incontro i giovani che si rivolgevano a lui. Pertanto, trovò naturale offrire tutta la sua solidarietà.
Purtroppo, non poté portare avanti a lungo la sua attività di solidarietà. A Roma, infatti, non vedevano di buon occhio il suo operato e volevano evitare che l’Ambasciata si riempisse di rifugiati come a Santiago del Cile, anche per non danneggiare i buoni rapporti con le autorità militari al potere. Pertanto, nel maggio del 1977 fu richiamato in Italia.
Una volta rientrato a Roma, si rese conto che i governi occidentali non avevano nessuna intenzione di rompere i rapporti con il governo militare di Videla. L’opinione pubblica mondiale non doveva rendersi conto di ciò che stava accadendo e i golpisti argentini, diversamente dai loro colleghi cileni, dovevano fare il possibile per non esibire la violenza e per dare l’impressione che il colpo di Stato non avesse modificato la vita quotidiana nel Paese.
Emblematico in tal senso è quanto accadde durante i mondiali di calcio che si svolsero in Argentina nel 1978. Quel mondiale, più che dall’Argentina, fu vinto dal regime, che per qualche tempo, in virtù di quella vittoria, riuscì a rafforzare il proprio potere.
La notte del 25 giugno 1978, mentre nelle strade di Buenos Aires si festeggiava la vittoria del Mundial, nei centri clandestini i giovani continuavano a subire violenze e torture di ogni genere. Le urla di dolore dei torturati si univano a quelle gioiose dei tifosi festanti in un macabro e unico suono, tra l’indifferenza generale.
Enrico Calamai nel 2004 ha ricevuto la Cruz dell’Orden del Libertador San Martin, massima onorificenza cavalleresca dello Stato dell’Argentina, per essersi battuto in difesa dei diritti umani e aver salvato tanti perseguitati dal regime militare argentino durante gli anni della dittatura.
Più che le onorificenze, che sono importanti per la loro valenza simbolica, ma difficilmente scuotono la coscienza, Calamai ha, però, sempre ritenuto fondamentale mantenere viva la memoria di quegli accadimenti, per far sì che l’opinione pubblica, pur incline ad altalenanti punte di solidarietà e indignazione, non viva in una sostanziale indifferenza quanto le accade intorno.