Claudio Tamburrini. Una vita parata all’ultimo secondo 

(Federica Cannas) – Claudio Tamburrini era un giovane portiere argentino, promettente, con l’intelligenza curiosa di chi non si accontenta della superficie delle cose. Alternava l’attività nel Club Almagro alla vita universitaria, alla lettura, al desiderio di capire un Paese che negli anni Settanta viveva un clima sempre più cupo. In quel momento storico l’Argentina era un territorio in cui ogni gesto, ogni frequentazione, ogni idea poteva trasformarsi in un sospetto, e dove la distinzione tra vita quotidiana e politica era scomparsa. Quando venne prelevato da un gruppo di militari nel novembre del 1977, non gli fu data alcuna spiegazione. Solo il silenzio, una benda sugli occhi e un viaggio verso la Mansión Seré, uno dei tanti centri clandestini di detenzione che costellavano la provincia di Buenos Aires.

Quell’edificio, una casa borghese trasformata in luogo di tortura, aveva come scopo principale la cancellazione dell’identità. Per i militari, Tamburrini non era un portiere, uno studente o un ragazzo come tanti. Era un corpo da punire, da spezzare, da gettare nell’ombra. La sua storia calcistica non suscitava alcuna curiosità, e anzi veniva deliberatamente ignorata, perché ricordargli chi fosse significava riconoscere in lui un essere umano. L’annientamento passava attraverso il controllo totale della percezione. Non esistevano più il giorno e la notte, ma solo la benda sugli occhi, il pavimento freddo, l’odore acre della paura. Tamburrini racconterà in seguito che, nella Mansión Seré, la dittatura aveva abolito non solo la libertà, ma anche la logica del tempo, perché senza tempo non esiste memoria, non esiste futuro, non esiste possibilità di immaginare un’uscita.

In quel contesto, le conversazioni tra prigionieri erano piccole forme di sopravvivenza psicologica che permettevano di restare agganciati a un’idea di normalità. Si parlava a voce bassa, ci si passava poche parole come se fossero oggetti preziosi, si provava a ricordare un volto, una strada, una musica ascoltata anni prima. La disumanizzazione era un processo lento e calibrato, pensato per non lasciare spazio a nessuna forma di reazione. Eppure, anche dentro quel sistema di annientamento, qualcosa continuava a muoversi sotto la superficie: il desiderio di opporsi, la consapevolezza che accettare il proprio destino significava arrendersi completamente.

La notte del 24 marzo 1978, durante un temporale violento, Tamburrini e altri tre prigionieri compresero che stavano per essere uccisi. La decisione di fuggire – nudi, bagnati, feriti, senza alcuna certezza di potercela fare – non fu un atto eroico nel senso tradizionale del termine, ma un gesto di pura sopravvivenza, un’ultima scelta possibile per riaffermare la propria esistenza. Si arrampicarono, aprirono una finestra, salirono sul tetto, si gettarono nel vuoto e corsero attraverso giardini e strade inondate. La fuga dalla Mansión Seré è uno degli episodi più straordinari della storia dei desaparecidos sopravvissuti. Non solo perché quasi nessuno riuscì mai a scappare da quei centri, ma perché la loro evasione si trasformò in un racconto, in un simbolo di resistenza contro un potere che si credeva onnipotente.

Una volta in salvo, Tamburrini iniziò un percorso che lo portò prima all’esilio e poi, anni dopo, al ritorno in un’Argentina finalmente democratica. Ma non si limitò a sopravvivere, scelse di testimoniare. Il suo libro “Pase libre. La fuga de la Mansión Seré” è un’opera che restituisce dimensione politica alla memoria individuale. Descrive la brutalità con precisione, senza compiacimenti, e allo stesso tempo illumina ciò che la dittatura non era riuscita a spegnere: il pensiero critico, la lucidità, la volontà di rendere pubblica la verità. Anni dopo, il suo racconto ispirerà il film “Crónica de una fuga”, che porterà la sua vicenda all’attenzione internazionale, pur senza riuscire davvero a catturare la complessità del vissuto di quei giorni e di quei mesi.

La storia di Tamburrini riguarda profondamente anche il calcio, benché non parli quasi mai di palloni e partite. Ricorda che lo sport non vive ai margini della società, non è un mondo parallelo o protetto. È un luogo attraversato da storie personali, da tensioni politiche, da fratture sociali, e spesso è una delle prime zone in cui emergono le contraddizioni di un Paese. Tamburrini era un ragazzo che difendeva la porta della sua squadra la domenica e che, improvvisamente, ha dovuto difendere la propria vita con la stessa determinazione, in un contesto incomparabilmente più feroce. Nel 1978 l’Argentina celebrava i Mondiali in un clima di esaltazione nazionale; mentre i gol entravano nei tabelloni luminosi degli stadi, centinaia di persone torturate nei centri clandestini venivano rese invisibili. La fuga di Tamburrini è il controcampo morale di quel Mondiale, ossia la verità che si muove nell’ombra mentre il Paese indossa la maschera.

La lezione che lascia è semplice e insieme devastante. Nessuno è al riparo dalla storia, neppure chi pensa di vivere in un mondo circoscritto come quello dello sport. La dignità non è un principio astratto, ma una decisione che richiede coraggio, lucidità e una volontà che non sempre crede di avere. Tamburrini è diventato un simbolo perché ha scelto di non sparire, di non lasciarsi annientare, di trasformare la paura in testimonianza. La sua fuga è una linea di luce dentro una delle epoche più buie del continente sudamericano, ed è anche un avvertimento: la libertà non è mai un bene garantito, e la memoria non è mai qualcosa che si possa delegare agli altri. Deve essere coltivata, raccontata, protetta.

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