In Brasile la riforma fiscale è finalmente diventata realtà. Dopo decenni di discussioni, rinvii e compromessi trasversali, Luiz Inácio Lula da Silva è riuscito dove altri si erano fermati. È riuscito a far approvare una revisione profonda del sistema tributario, una delle più complesse e significative della storia democratica del Paese. Una riforma che punta a ridurre le disuguaglianze, semplificare un meccanismo farraginoso e restituire al Brasile un orizzonte di crescita più equo.
Il 5 novembre 2025 il Senato ha approvato il progetto che alza la soglia di esenzione dell’Imposto de Renda fino a 5.000 reais mensili. Ma il passaggio decisivo è arrivato negli ultimi giorni: Lula ha promulgato la legge, rendendo operativa l’esenzione a partire dal 1º gennaio 2026. È una misura che riguarda da vicino circa 15 milioni di persone: quasi dieci milioni smetteranno completamente di pagare l’imposta sul reddito, mentre altri cinque milioni beneficeranno di una riduzione. La riforma introduce anche un contributo più marcato sui redditi alti, mantenendo un equilibrio che punta ad ampliare il reddito disponibile delle famiglie senza compromettere il bilancio pubblico.
Accanto all’esenzione, la legge introduce una ritenuta del 10% sui dividendi inviati all’estero o distribuiti a soggetti non residenti. È un passaggio che segna una svolta nel rapporto tra Brasile, capitali e grande ricchezza: una correzione strutturale che il governo considera parte integrante di un nuovo patto tributario.
Il punto di partenza è un sistema fiscale che, fino a oggi, era un labirinto. Cinque imposte diverse sul consumo convivevano su tre livelli – federale, statale e municipale – generando un mare di adempimenti, conflitti di competenza e costi amministrativi elevatissimi per le imprese. Ma il problema non era soltanto tecnico. Era politico, sociale, strutturale. Le tasse pesavano soprattutto sui consumi, e quindi sulle fasce popolari, mentre i grandi redditi e i patrimoni venivano toccati in modo marginale. Il risultato era un Paese che tassava la povertà più della ricchezza, facendo ricadere i costi su chi aveva meno voce.
La nuova impostazione si inserisce nel percorso tracciato dall’Emenda Constitucional nº 132/2023, che ha ridisegnato l’architettura del sistema: le cinque imposte sul consumo lasceranno gradualmente spazio a due tributi principali, la CBS (federale) e la IBS (gestita da stati e municipi). È un modello più vicino all’IVA europea, costruito per ridurre le distorsioni e aumentare la trasparenza. Il passaggio non sarà immediato. La riforma prevede una transizione lunga, che inizierà nel 2026 con aliquote simboliche e si concluderà nel 2033, quando il vecchio sistema sarà definitivamente superato.
Lula, con la riforma di novembre, ha scelto di partire dalle persone. Ha voluto dare un segnale netto alle fasce medio-basse del Paese, mantenendo una promessa di forte valore politico: “Nessun lavoratore che guadagna fino a cinquemila reais sarà tassato”. Accanto a questo, viene istituito un imposto seletivo, una tassa che colpirà beni dannosi per l’ambiente e la salute – carburanti fossili, sigarette – rafforzando il profilo ecologico e sanitario del nuovo impianto.
Il ministro delle Finanze Fernando Haddad ha definito l’insieme delle misure “la riforma più importante degli ultimi decenni”. Non solo per i suoi effetti economici – si stima una crescita del PIL tra il 10 % e il 15 % nel medio periodo – ma per la capacità di ricondurre a coerenza un federalismo fiscale spesso frammentato e contraddittorio.
Le sfide sono molte. Gli stati temono perdite di gettito durante la transizione e chiedono garanzie solide. Le imprese dovranno rimodulare sistemi digitali di fatturazione e controllo. E sul piano politico, restano aperti i nodi interpretativi sulla coesistenza temporanea tra vecchio e nuovo sistema, un terreno potenzialmente fertile per contenziosi.
Non meno rilevante è il tema dell’efficacia redistributiva. Cashback, esenzioni mirate e aliquote dovranno essere calibrati con attenzione per evitare che gli strumenti nati per ridurre le disuguaglianze finiscano per attenuarne la portata. È qui che si misurerà la reale forza della riforma.
Al di là della tecnica, però, il vero significato della riforma fiscale è politico. Segna il ritorno del Brasile all’idea che la politica possa essere un mezzo di trasformazione e non solo di gestione. Lula, nel suo terzo mandato, sceglie di imprimere una direzione: meno privilegio, più equilibrio. È un messaggio che parla anche al resto del Sudamerica, continente che continua a confrontarsi con disuguaglianza, dipendenza economica e instabilità.
Il Brasile torna così a essere un laboratorio politico, come agli inizi degli anni Duemila, quando il Bolsa Família e le riforme sociali della prima stagione lulista furono un riferimento internazionale. La riforma fiscale potrebbe diventare un modello per altri paesi del Sud globale, perché prova a coniugare sviluppo e giustizia sociale, due dimensioni spesso contrapposte, qui riportate allo stesso tavolo.
Il successo dipenderà dal tempo, dalla coerenza nell’applicazione, dalla capacità di resistere alle pressioni dei grandi gruppi economici e di mantenere fede allo spirito della riforma. Ma il fatto che, in un mondo attraversato da polarizzazioni e crisi, un governo scelga di intervenire sulle radici delle disuguaglianze fiscali è già un segnale politico di grande rilevanza.
E negli ultimi giorni la promulgazione della legge ha avuto un’eco immediata anche fuori dal Parlamento. Lula l’ha celebrata pubblicamente, rivendicandola come una promessa mantenuta e come un segnale di riscatto per milioni di lavoratori. Sui social il gesto è stato letto come la prova che una riforma fiscale può diventare un atto politico capace di incidere sulla vita quotidiana. Un modo per dire che, in Brasile, la giustizia tributaria non è più soltanto un orizzonte, ma un passaggio concreto della storia presente.
La Presidente
Federica Cannas
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