(Federica Cannas) – Nel terzo trimestre del 2025 la Spagna ha superato i 22,39 milioni di occupati, raggiungendo il livello più alto degli ultimi quindici anni. È un risultato confermato dall’Instituto Nacional de Estadística e rappresenta il punto più evidente del cambiamento culturale costruito, passo dopo passo, dal governo di Pedro Sánchez e dalla Ministra del Lavoro Yolanda Díaz.
Una trasformazione che ha rimesso al centro il lavoro dignitoso, dimostrando che salari più alti e contratti più solidi non frenano l’economia, ma possono renderla più stabile e competitiva.
Sempre secondo l’INE, la disoccupazione è scesa al 10,45%, il dato più basso dall’inizio della crisi del 2008. In parallelo, il salario minimo interprofessionale è stato portato a 1.184 euro mensili su 14 mensilità per il 2025, proseguendo un percorso iniziato nel 2018 che ha visto un aumento complessivo molto significativo.
Dietro questi numeri c’è una visione politica precisa: il lavoro come fondamento di una società giusta e capace di crescere nel lungo periodo.
Quando nel 2021 Yolanda Díaz presentò la sua riforma, molti la giudicarono rischiosa. Rafforzare i contratti a tempo indeterminato e alzare il salario minimo sembrava, per una parte della teoria economica tradizionale, un passo azzardato. Eppure, l’obiettivo era chiaro: invertire la spirale della precarietà e superare decenni di riforme neoliberali che avevano moltiplicato i contratti temporanei.
La riforma, approvata il 23 dicembre 2021, fu il frutto di un accordo storico tra governo, sindacati e imprenditori. Eliminò il contratto por obra o servicio, simbolo della precarietà spagnola, e stabilì che l’assunzione ordinaria dovesse essere quella a tempo indeterminato.
Gli effetti non tardarono ad arrivare. Le analisi disponibili mostrano una crescita consistente dei contratti stabili e una riduzione significativa della temporaneità, un fenomeno che per anni era sembrato strutturale. La Spagna, tradizionalmente uno dei Paesi europei con i livelli più alti di contratti a termine, ha cambiato rotta con una rapidità che pochi si aspettavano.
La forza del modello spagnolo non risiede solo nei numeri, ma nella filosofia sociale ed economica che lo ispira. L’idea che un’economia possa crescere non malgrado i diritti, ma grazie ai diritti, rompe con un intero ciclo di pensiero unico liberista.
La riforma Sánchez-Díaz ha mostrato che l’aumento dei salari sostiene la domanda interna e che una maggiore stabilità lavorativa può favorire produttività, coesione e fiducia. Un recente rapporto di Eurofound indica che gli aumenti del salario minimo in Spagna non hanno prodotto cali occupazionali significativi, ma hanno contribuito a una riduzione delle disuguaglianze.
Anche sul piano europeo il modello spagnolo è sempre più osservato. L’OCSE e la Commissione Europea hanno riconosciuto la dinamica positiva dell’occupazione e il miglioramento della qualità del lavoro. I progressi sono visibili anche nella partecipazione femminile al mercato del lavoro, che negli ultimi anni ha mostrato un andamento crescente.
Un ruolo importante è svolto anche dalla formazione professionale duale, che il governo Sánchez ha consolidato come uno degli strumenti per la transizione ecologica e digitale. Si tratta di una leva che sta coinvolgendo un numero crescente di studenti e apprendisti, avvicinando la formazione ai bisogni reali del mercato del lavoro.
Dalla Spagna emerge una visione del lavoro come fattore di coesione e dignità, non come variabile da comprimere nei momenti di difficoltà. La riforma del lavoro ha contribuito a ricucire una frattura storica tra produttività ed equità, riportando il lavoratore al centro delle politiche pubbliche.
In un’Europa ancora attraversata da forti disuguaglianze, la Spagna sta mostrando che equità e sviluppo possono camminare insieme.
E che la modernità non coincide con l’austerità, ma con la capacità di costruire un’economia che non lasci indietro nessuno.

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