(Federica Cannas) – Mar del Plata fu il luogo in cui l’America Latina, dopo tanto tempo, tornò a pronunciare un No dal valore molto forte. Il 5 novembre 2005 non sancì la fine del neoliberismo. Ma impose un limite riconoscibile alla sua ambizione emisferica. La bocciatura dell’ALCA, l’Area di Libero Commercio delle Americhe, fu il punto in cui la retorica dell’integrazione subordinata si inceppò. Fu un atto di riaffermazione della sovranità del Sud.

L’ALCA si presentava come un accordo di libero commercio che doveva unire il continente dal Canada all’Argentina. Nelle parole ufficiali doveva eliminare barriere, facilitare investimenti, creare un unico grande mercato americano. Il progetto era pensato a Washington e guidato dagli Stati Uniti. Nella sostanza avrebbe significato aprire in modo totale i mercati locali alla concorrenza nordamericana. Le industrie del Sud sarebbero diventate ancora più dipendenti dalla struttura produttiva del Nord. Avrebbe concentrato potere nei settori più forti e lasciato i produttori latinoamericani in posizione periferica. L’idea della libera circolazione in questo schema non era realmente reciproca. Il Sud avrebbe dovuto accettare la logica del più forte in cambio di una promessa astratta di modernizzazione. Il linguaggio era seducente. La finalità concreta molto meno.

Quel giorno però i presidenti del Mercosur fecero ciò che era considerato politicamente impensabile. Kirchner, Lula, Chávez, Tabaré Vázquez, Duarte Frutos. Con accenti diversi ma con un fronte comune rifiutarono la firma. Una posizione che arrivava da settimane di negoziati e lavori tecnici. E che trovò eco in una mobilitazione popolare senza precedenti. Nei saloni dell’hotel Hermitage i funzionari parlavano a porte chiuse. Nelle strade era la società civile a costruire una legittimità dal basso. La Cumbre de los Pueblos fu un vulcano di idee. Sindacalisti. Movimenti sociali. Dirigenti arrivati da tutto il continente. Tutti a difesa di un principio semplice ma raramente esplicitato in forma così diretta. L’America Latina non è un territorio neutro da integrare dall’alto. È un soggetto politico.

La scena più rappresentativa di quei giorni è il volto teso di George Bush durante il discorso finale. Kirchner affermò che i presidenti dovevano avere il coraggio di rappresentare i propri popoli. E che la storia avrebbe giudicato quella scelta non come una reazione emotiva, ma come un atto di dignità. Una frase che ancora oggi non ha perso potenza.

Il No all’ALCA non fu isolato. Fu il risultato di un clima storico. Il ciclo progressista iniziava a prendere forma. Lula mostrava che si poteva governare il Brasile senza sottomettersi ai dettami delle élite finanziarie. Chávez aveva spostato l’immaginario della sovranità in Venezuela. Kirchner stava ricostruendo l’Argentina dopo la devastazione neoliberale del 2001. Nessuno pensava che dire No avrebbe magicamente liberato il continente dall’egemonia del Nord. Ma sapevano che quella firma avrebbe aperto una porta che poi non si sarebbe più potuta chiudere.

A vent’anni di distanza quello che rimane é memoria politica attiva. L’ALCA non fu semplicemente un accordo commerciale mancato. Fu l’occasione in cui l’America Latina capì che integrarsi non significava necessariamente uniformarsi. Che costruire una cooperazione regionale non significava allinearsi a una logica unica. Che la subordinazione economica non è un destino naturale.

Oggi che il continente è attraversato da un nuovo ciclo, in cui le alleanze sono meno lineari e l’agenda globale è dominata da nuovi attori e nuove pressioni, il significato di quel No riemerge come monito. La sovranità non si esercita una volta sola. Si rinnova, si difende, si riscrive.

Il Sud del mondo sarebbe lo stesso, se quell’atto di rottura non fosse avvenuto o se l’America Latina avesse accettato la cornice già scritta altrove? È lì che si misura la portata reale di quel No. Nella possibilità concreta di sottrarsi a modelli importati come pacchetti chiavi in mano, soprattutto quando lo scenario globale diventa più incerto e le pressioni crescono.

La domanda rimane. Non appartiene al passato. Quanto è ancora possibile dire No in un tempo che tende a presentare come inevitabile ciò che è solo conveniente per qualcuno?

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