
Una causa universale: la Palestina e la sinistra internazionale
La causa palestinese non è una questione “regionale”, né un semplice conflitto geopolitico nel Medio Oriente. È, da decenni, uno specchio della giustizia internazionale, un banco di prova per la coerenza etica e politica dei movimenti che si richiamano alla libertà, all’uguaglianza, all’autodeterminazione dei popoli.
Nel secolo scorso, le grandi figure del socialismo internazionale non avevano dubbi: la Palestina rappresentava il paradigma di una lotta di liberazione contro l’occupazione, il colonialismo e l’apartheid. La solidarietà con il popolo palestinese non era un’opzione diplomatica, ma un imperativo morale e politico.
Oggi, questa solidarietà sembra essersi smarrita. Oscurata da opportunismi, calcoli elettorali, silenzi imbarazzati. In questa riflessione vogliamo ricostruire la traiettoria storica di quel legame, da Salvador Allende a Evo Morales, da Berlinguer a Craxi, per mostrare cosa significava, e cosa dovrebbe ancora significare, essere socialisti davanti all’ingiustizia che da decenni subisce il popolo palestinese.
America Latina: il cuore rivoluzionario della solidarietà
Nel continente latinoamericano, dove le dittature militari e l’ingerenza statunitense hanno lasciato ferite profonde, la causa palestinese è stata accolta come propria dai movimenti progressisti e socialisti.
Salvador Allende, presidente socialista del Cile, assassinato durante il golpe dell’11 settembre 1973, comprese la causa palestinese come specchio della sua stessa battaglia per la sovranità e la giustizia. Nel suo storico discorso all’ONU del 1972 affermò: “I popoli arabi, come i popoli latinoamericani, sanno cosa significa la colonizzazione. È per questo che siamo fratelli.”
Durante il suo governo, il Cile stabilì rapporti politici con l’OLP, allora guidata da Yasser Arafat. Per Allende, la Palestina rappresentava il volto arabo dello stesso imperialismo che opprimeva l’America Latina.
Con Hugo Chávez, la solidarietà si fece gesto radicale. Durante l’operazione “Piombo Fuso” (2008–2009), che costò la vita a oltre 1.400 palestinesi, Chávez espulse l’ambasciatore israeliano da Caracas e definì Israele “uno Stato genocida”. Disse: “Se c’è un popolo che sa cosa significa essere cacciato, colonizzato, umiliato, è il popolo palestinese. E se c’è un popolo che ha il dovere morale di stare con loro, siamo noi.”
Anche Evo Morales, presidente della Bolivia, nel 2014 ruppe le relazioni diplomatiche con Israele, accusandolo di “terrorismo di Stato”. Il suo linguaggio diretto, lontano dai codici diplomatici europei, ricordava al mondo che i diritti umani non sono negoziabili.
Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile, ha mantenuto nel tempo una posizione chiara: il riconoscimento dello Stato palestinese come prerequisito per qualsiasi pace. Dopo i bombardamenti su Gaza del 2023, Lula ha parlato senza ambiguità: “Uccidere bambini non è autodifesa. È un crimine contro l’umanità.”
Nel 2024 ha persino paragonato l’offensiva israeliana all’Olocausto, scatenando reazioni diplomatiche e il ritiro dell’ambasciatore israeliano. Il Brasile ha aumentato i fondi a sostegno dell’UNRWA e ha chiesto un cessate il fuoco immediato.
In Cile, il presidente Gabriel Boric ha assunto una posizione altrettanto netta. Ha definito Israele uno “Stato genocida”, condannando pubblicamente l’attacco su Gaza e sostenendo la necessità di rompere la complicità internazionale con l’occupazione. Già nel 2021, da deputato, aveva promosso un disegno di legge per vietare l’importazione di beni prodotti negli insediamenti israeliani illegali. Nel gennaio 2024 ha richiamato l’ambasciatore cileno da Tel Aviv, denunciando le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario.
Gustavo Petro, presidente della Colombia, ha spinto ancora oltre la linea della denuncia: nel maggio 2024 ha rotto ufficialmente le relazioni diplomatiche con Israele, accusandolo apertamente di crimini contro l’umanità. Ha paragonato le azioni dell’esercito israeliano a quelle dei nazisti, attirando critiche ma ricevendo il plauso delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Petro ha anche annunciato l’invio di personale medico e umanitario a Gaza, ribadendo che la Colombia “non può essere complice del genocidio”.
Anche Claudia Sheinbaum, presidente del Messico, ha preso posizione, seppur con toni più istituzionali. Nell’ottobre 2024 ha ribadito la necessità della soluzione a due Stati, sottolineando che “il diritto del popolo palestinese ad avere una patria è inseparabile da quello del popolo israeliano a vivere in sicurezza”. Pur mantenendo un equilibrio diplomatico, Sheinbaum ha sottolineato la responsabilità delle potenze mondiali nel fallimento della pace.
Infine, è impossibile non menzionare Camila Vallejo, ministra cilena e voce di spicco del Partito Comunista. Da anni sostiene la causa palestinese con parole chiare e coraggiose. Ha definito Israele “uno Stato terroristico”, e ha più volte parlato di “genocidio sistematico”. Le sue dichiarazioni le sono costate attacchi da parte di ambienti conservatori, ma le hanno anche guadagnato il rispetto di chi difende i diritti umani senza ambiguità.
L’Europa socialista tra coraggio e ambiguità
In Europa, la sinistra ha spesso oscillato tra coraggio politico e ambiguità diplomatica. Ma non sono mancati momenti di chiarezza.
Enrico Berlinguer, segretario del PCI, pur mantenendo una posizione che oggi chiameremmo “equilibrata”, sostenne il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. In un celebre discorso del 1982 affermò: “Nessuna pace sarà possibile nel Mediterraneo senza il riconoscimento del diritto del popolo palestinese a una patria, a una dignità, a una vita libera.”
Il PCI intratteneva relazioni ufficiali con l’OLP e appoggiò la Risoluzione ONU 3236 del 1974, che riconosceva i diritti inalienabili del popolo palestinese.
Ma fu Bettino Craxi, leader socialista e presidente del Consiglio, a rompere ogni indugio. Nel 1983 ricevette ufficialmente Arafat a Roma, suscitando proteste furiose da parte di Stati Uniti e Israele. Due anni dopo, nel caso Sigonella, Craxi impedì ai marines americani di sequestrare i militanti palestinesi protagonisti della crisi dell’Achille Lauro. La sua frase rimane scolpita nella memoria: “Chi comanda in Italia? L’Italia o qualcun altro?”.
In lui la questione palestinese diventava questione di sovranità nazionale, oltre che di giustizia.
Sandro Pertini, partigiano, socialista, presidente della Repubblica, fu altrettanto chiaro. In una lettera all’ONU scrisse: “Non basta condannare il terrorismo. Bisogna chiedersi perché alcuni popoli siano costretti a gesti estremi. E la risposta è l’ingiustizia.”
Anche altrove, in Europa, la causa palestinese trovava sponde coraggiose. In Irlanda, Gerry Adams del Sinn Féin ha spesso paragonato la situazione palestinese alla lotta contro l’occupazione britannica. Dopo una visita a Gaza dichiarò: “Noi irlandesi non possiamo non sentirci palestinesi.”
In Francia, nonostante l’ambiguità di François Mitterrand, il Partito Socialista ha ospitato a più riprese delegazioni palestinesi. Recentemente, Emma Rafowicz, giovane leader dei Jeunes Socialistes, ha denunciato i crimini di guerra a Gaza, subendo minacce e attacchi da parte dell’estrema destra e dei media più vicini al sionismo.
Parole che pesano: voci che restano
- Riportiamo qui alcune parole storiche che valgono oggi più che mai:
- Salvador Allende, 1972, ONU: “I popoli arabi, come i popoli latinoamericani, sanno cosa significa la colonizzazione. È per questo che siamo fratelli.”
- Bettino Craxi, 1985, Sigonella: “Non consegnerò dei combattenti nelle mani di chi bombarda i campi profughi.”
- Hugo Chávez, 2009: “Viva la Palestina libera! Viva il coraggio di chi resiste tra le macerie!”
- Enrico Berlinguer, 1982: “Se la sinistra perde il senso della giustizia internazionale, ha già perso la propria anima.”
- Yasser Arafat, 1988, Parlamento Europeo: “Non vi chiedo la carità, ma la giustizia. E la giustizia ha trovato casa nella sinistra europea.”
Il tradimento di oggi, la memoria di domani
Oggi, mentre Gaza viene rasa al suolo sotto il silenzio imbarazzato di molte capitali occidentali, l’eredità di quella sinistra internazionale che sapeva da che parte stare appare lontana, quasi irriconoscibile. Molti leader che si definiscono socialisti parlano di “equilibrio”, “dialogo”, “cessate il fuoco”, ma evitano accuratamente le parole fondamentali: occupazione, apartheid, genocidio.
Si può ancora essere socialisti e ignorare il popolo palestinese?
La risposta è no. E chi oggi tace, si allontana non solo dalla giustizia, ma dalla storia del socialismo stesso.
Salvador Allende, Berlinguer, Craxi, Pertini, Chávez, Lula, Morales – nessuno di loro avrebbe esitato. Avrebbero parlato. Avrebbero preso posizione. Avrebbero resistito.
Ed è da lì che dobbiamo ripartire. Dalla coerenza morale, dalla dignità politica, dalla memoria di chi ha avuto il coraggio di dire la verità anche quando era scomoda.
Perché la Palestina non è un capitolo chiuso. È una ferita aperta, e anche un test. Un test per la coscienza della sinistra del presente e per la sua capacità di restare fedele a se stessa.
Raimondo Schiavone