Alcune verità aspettano troppo a lungo per essere riconosciute. Ci sono ferite che non si rimarginano perché manca la giustizia, il riconoscimento, la volontà politica di guardare in faccia il passato. In Cile, il 2023 ha segnato un momento storico con il lancio del Plan Nacional de Búsqueda, il primo programma ufficiale per cercare le persone scomparse durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Un passo necessario, ma che arriva con quasi mezzo secolo di ritardo, lasciando aperte domande fondamentali sulla possibilità di trovare la verità e sulla capacità del Cile di chiudere i conti con il proprio passato.
Il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 rovesciò il governo democratico di Salvador Allende e inaugurò una dittatura militare che, in 17 anni di repressione, fece sparire più di 1.469 persone, secondo i dati ufficiali. Uomini e donne arrestati, torturati, uccisi e poi cancellati, i loro corpi nascosti in fosse comuni, gettati in mare o bruciati per non lasciare tracce. Per decenni, le loro famiglie hanno vissuto nell’incertezza, senza sapere cosa fosse successo ai loro cari.
Nonostante i governi democratici che si sono susseguiti dopo la fine della dittatura nel 1990 abbiano aperto processi contro i responsabili e avviato indagini sui desaparecidos, le informazioni sono sempre state frammentarie, parziali, ostacolate dall’omertà di chi sapeva e non ha mai parlato. La verità è rimasta incompleta.
Quando, nel 2023, il presidente Gabriel Boric ha annunciato il Plan Nacional de Búsqueda, molti lo hanno definito un atto di giustizia atteso da troppo tempo. Il piano ha tre obiettivi principali. Identificare le vittime della dittatura e ricostruire le circostanze delle loro sparizioni. Determinare la responsabilità dello Stato nella repressione e nell’occultamento delle prove.Creare un meccanismo ufficiale e permanente per cercare i resti delle persone scomparse.
Per la prima volta, lo Stato cileno riconosce apertamente il proprio coinvolgimento nelle sparizioni forzate e si impegna a cercare risposte in modo sistematico. Tuttavia, il piano arriva con decenni di ritardo. Molti dei testimoni chiave sono morti, i documenti sono stati distrutti, i responsabili rimasti in vita spesso si rifiutano ancora di parlare. Il tempo ha cancellato molte tracce e ha reso il lavoro degli investigatori ancora più difficile.
Se da un lato il Plan Nacional de Búsqueda è un segnale forte di impegno istituzionale, dall’altro ci sono ancora resistenze politiche e sociali. La destra cilena, che non ha mai rinnegato del tutto l’eredità di Pinochet, ha sempre espresso scetticismo sul piano, sostenendo che riaprire le ferite del passato potrebbe “dividere” il Paese. Ma può esserci vera unità senza giustizia?
Il Cile di oggi è ancora profondamente segnato dalla sua storia. Le nuove generazioni, nate dopo la dittatura, sono più consapevoli delle ingiustizie del passato e chiedono trasparenza. Le proteste sociali del 2019, che hanno portato a una nuova Costituzione, poi bocciata in un referendum, hanno dimostrato che il tema della memoria non è qualcosa di chiuso, ma è ancora un nodo irrisolto.
Il Plan Nacional de Búsqueda non potrà riportare indietro i desaparecidos, né cancellare il dolore di chi li ha persi. Ma può essere un passo fondamentale per riconoscere la verità, per dire, una volta per tutte, che lo Stato cileno ha avuto un ruolo nella repressione e che la giustizia non può essere negata per sempre.
La memoria non è solo un dovere verso chi non c’è più. È anche una forma di resistenza contro ogni possibile ritorno dell’autoritarismo. Un Paese che non conosce il proprio passato è condannato a ripeterlo. Il Cile è davanti a una scelta: affrontare fino in fondo il suo passato o continuare a lasciare che il silenzio parli al posto delle verità mai dette.

La Presidente
Federica Cannas

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