
C’è un filo rosso che, inevitabilmente, unisce l’Italia all’Argentina ed alle insensate vicende che ne hanno sconvolto la vita dal 1976 al 1983. Non poche sono, infatti, le affinità con l’Italia. Circa il 60% della popolazione argentina è di origine italiana. Si tratta di uno dei Paesi che, più di altri, ha accolto con calore tantissimi nostri connazionali, partiti con valigie cariche di sogni per un viaggio che li avrebbe condotti dall’altra parte del mondo.
Ciò che maggiormente colpisce delle tragiche vicende che, durante quegli anni, hanno fatto tabula rasa di un’intera generazione di giovani è la presenza, sia tra i carnefici che tra le vittime, di tantissimi cognomi di origine italiana. Si tratta di una vicenda in parte anche italiana, che non lascia indifferenti. Molti cittadini argentini di discendenza italiana si resero responsabili di crimini orrendi e, viceversa, altri pagarono con la vita la difesa degli ideali di libertà e giustizia.
Durante gli anni della dittatura si consumò il più grande massacro della storia argentina. Circa 30.000 persone furono rapite, deportate nei famigerati centri di detenzione clandestina, torturate ed uccise, in attuazione di quello che avrebbe dovuto essere un processo di riorganizzazione nazionale e che prevedeva l’eliminazione sistematica di chiunque venisse ritenuto scomodo ed antigovernativo dalla giunta militare. Per essere ritenuti scomodi, bastava davvero poco. Studenti, sindacalisti, giornalisti, insegnanti, i loro parenti, gli amici e gli amici degli amici. Chiunque, agli occhi dei militari, potesse rappresentare un ostacolo all’attuazione del proprio turpe disegno, scomparve nel nulla.
30.000 desaparecidos, un’intera generazione di giovani annientata.
La giunta militare intendeva evitare il ripetersi di quanto accaduto pochi anni prima in Cile con il golpe di Pinochet, quando le immagini dei prigionieri ammassati nello stadio di Santiago del Cile, divenuto un campo di concentramento a cielo aperto, fecero il giro del mondo, scatenando la riprovazione della comunità internazionale. In Argentina tutto sarebbe dovuto avvenire nella più totale segretezza. E così fu, in effetti. Ció garantì alle giunte militari avvicendatesi dal 1976 al 1983 quell’invisibilità che per anni avrebbe coperto agli occhi del mondo atrocità di ogni genere.
Nella lista dei 30.000 desaparecidos, ufficialmente non compare Laura Carlotto, solamente perché il suo corpo martoriato venne fatto ritrovare ai genitori.
Laura era la figlia di Estela Carlotto, che oggi è la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo. Aveva origini italiane, suo padre Guido si era trasferito dalla provincia di Vicenza in Argentina, dove aveva aperto una piccola fabbrica di vernici.
Laura era nata nel 1955 e viveva con la sua famiglia a La Plata, città universitaria per eccellenza.
Nel 1974, si iscrisse alla Facoltà di Storia dell’Università della sua città e cominciò a militare nella Juventud Peronista, un’organizzazione politica universitaria. Era perfettamente consapevole dei pericoli che correva chi faceva politica, ma era altrettanto convinta che qualcuno dovesse pur muoversi contro l’ingiustizia.
Era una ragazza molto forte e coraggiosa, si dava da fare per i più deboli, per chi stava ai margini, i poveri, gli analfabeti, la gente che viveva in condizioni disperate nelle villas miserias.
Fare politica rappresentava per lei il modo per battersi per un mondo più libero e giusto e quando i militari giunsero al potere, non volle saperne di fuggire.
Qualche tempo prima del sequestro di Laura, suo padre Guido fu catturato dai militari e tradotto in un centro clandestino di detenzione, in cui fu torturato per giorni prima di essere rilasciato solo in seguito al pagamento di 40.000 pesos. Nel periodo in cui Guido Carlotto rimase in prigionia, Laura dovette nascondersi, consapevole che la vittima successiva sarebbe stata lei.
Di lì a poco Laura e il suo compagno furono sequestrati, mentre si trovavano in una pasticceria di Buenos Aires. Al momento del rapimento, Laura era incinta di tre mesi. Furono portati nel centro clandestino chiamato La Cacha, nel quale uccisero il compagno di Laura davanti a lei, che fu tenuta in vita per portare a termine la gravidanza.
Una delle peggiori atrocità commesse dai militari durante gli anni della dittatura fu il rapimento dei bambini figli dei desaparecidos. I militari procedettero alla sottrazione sistematica dei bambini nati in prigionia, che poi venivano affidati a famiglie di militari o loro vicine, che li avrebbero educati secondo quei pseudovalori propagandati dal regime. La sottrazione e la soppressione di identità dei bambini nati durante la prigionia rappresentano crimini che rientravano pienamente nel piano di annichilimento sistematico dentro il quale, oltre a colpire fisicamente coloro che venivano etichettati come sovversivi, fu anche necessario amputare gli ideali che questi cittadini sostenevano, eliminando anche l’identità di coloro nei quali, in futuro, avrebbero potuto albergare gli stessi ideali.
Le notizie certe sulla presenza di Laura nel centro clandestino di “La Cacha” sono state date da numerosi giovani internati nello stesso centro, in particolar modo da una ragazza che condivise la prigionia con lei, Maria Laura Bretal. Anche lei incinta nel momento in cui fu sequestrata, ebbe la prontezza di mentire sulla data del possibile parto, cercando di nasconderlo, per riuscire ad essere liberata prima della nascita del bambino. Cosa che puntualmente accadde. Per molte di queste ragazze in attesa di un bambino al momento del sequestro, la loro condizione era un motivo in più per sapere in anticipo che sarebbero state uccise.
Le prigioniere non venivano esentate dalle sevizie per il solo motivo di essere incinte. Chi resisteva e portava a termine la gravidanza veniva fatta a partorire e dopo poche ore il neonato veniva sottratto alla madre, per la quale, da quel momento, veniva emessa la sentenza di condanna a morte.
Uno dei componenti la prima giunta militare al potere, l’ammiraglio Massera, amava ripetere che era necessario dare un segnale affinché i giovani “per almeno quattro generazioni non si occupassero più di politica”.
Maria Laura Bretal, trovandosi con Laura nel centro di prigionia clandestino, poté essere testimone della nascita del figlio di Laura, che fu chiamato Guido, come il nono materno.
Il figlio di Laura nacque il 26 giugno 1978, il giorno dopo i festeggiamenti per la vittoria dell’Argentina al Mundial, quando il torneo fu utilizzato da Videla e dalla sua giunta, quale copertura ai crimini commessi dal regime. Nelle strade si festeggiava, nei centri clandestini i giovani morivano tra le più atroci torture.
Laura partorì ammanettata e le vennero concesse poche ore con il suo bambino. Qualche tempo dopo la Laura fu informata del fatto che presto avrebbe dovuto lasciare il centro di detenzione. Il termine trasferimento, “traslado”, significava quasi sempre l’eliminazione fisica. Fu inscenato un finto scontro armato nel quale Laura fu uccisa.
Estela, nel frattempo, non aveva mai smesso di cercare disperatamente la figlia, della quale chiedeva che almeno le venisse restituito il cadavere. Promessa che i militari mantennero. Quando, nell’agosto del 1978, il corpo di Laura venne consegnato ai genitori, i militari raccontarono loro che Laura apparteneva ad una organizzazione terroristica e che morta durante uno scontro a fuoco, come erano soliti fare in casi come questo, non potendo ammettere di avere imprigionato illegalmente, torturato ed ucciso migliaia di giovani. Laura aveva il ventre devastato da una raffica di mitra, nel subdolo tentativo dei militari di nascondere il recente parto.
Da quel momento, l’unica ragione di vita, per Estela Carlotto, fu la ricerca del figlio di Laura, suo nipote Guido.
Lo ha cercato senza mai perdere la speranza per 36 anni.
Un destino giusto ha consentito che nel 2014 Estela e le Abuelasritrovassero Guido, che oggi fa il musicista. Non sono tanti i dettagli del ritrovamento, ma certamente si tratta di una bella ed emozionante storia d’amore, quella che ha consentito ad Estela di riabbracciare quel nipote che con coraggio e amore aveva cercato per una vita intera, difendendo la memoria di Laura e dei giovani che, come lei, persero la vita. Trasformando, in tal modo, il proprio dolore in una lotta pacifica in difesa dei diritti umani, affinchè un tale orrore non si verificasse MAI PIU’.
“Signori giudici: voglio rinunciare espressamente a qualunque pretesa di originalità per chiudere la requisitoria. Voglio fare mia una frase che non mi appartiene, perché appartiene a tutto il popolo argentino. Signori giudici: Nunca màs!Mai più!” (1985. Arringa finale del Pubblico Ministero Julio Julio Cèsar Strassera, nel processo a carico dei vertici della giunta militare Argentina)